Il seguente testo è tratto dal cap. 11 del libro: “Accessibilità: dalla teoria alla realtà “. 

Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 187 del 13 agosto 2003, è intitolato: Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Il decreto recepisce la direttiva 2000/78/CE del Consiglio Europeo del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

art. 1. (Oggetto)

1. Il presente decreto reca le disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione, in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini.

È chiaro quindi che il decreto intende regolamentare la parità di trattamento in ambito lavorativo, ponendo tra le modalità di discriminazione anche l’handicap.

art. 2. (Nozione di discriminazione)

1. Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall’art. 3, commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:

discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona e’ trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

In questo articolo si definisce il principio di parità di trattamento definendo inoltre le due tipologie di discriminazione, diretta ed indiretta e chiaramente, come si vedrà nel prossimo articolo, l’ambito di applicazione è particolarmente esteso nel mondo del lavoro. È soprattutto importante notare la definizione di discriminazione indiretta ossia quando un comportamento o altro che possono sembrare “normali” provocano invece problemi a talune categorie di utenti – nel nostro caso l’inac-cessibilità di servizi agli utenti con disabilità. Sempre nell’art. 2 comma 4 si fa riferimento alla discriminazione e in particolar modo all’eventuale ordine di discriminazione.

“4. L’ordine di discriminare persone a causa della religione, delle convinzioni personali, dell’handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale e’ considerata una discriminazione ai sensi del comma 1”.

Cosa significa? Semplicemente che, nel caso di una P.A. o di un’azienda privata dove il dirigente vieta l’acquisto di attrezzature atte all’integrazione del lavoratore con disabilità, tale dirigente effettua una discriminazione ed è soggetto ai provvedimenti di cui vedremo in seguito. Nell’art. 3 è definito l’ambito di applicazione della normativa che, come si noterà, è principalmente legato al mondo del lavoro:

art. 3. (Ambito di applicazione)

1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed e’ suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’art. 4, con specifico riferimento alle seguenti aree:

accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;

occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento;

accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;

affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni”.

Si nota subito che la legge non pone differenziazioni tra settore pubblico e privato e che l’ambito di applicazione riguarda tutti i livelli occupazionali e formazione professionale, nonché relativamente alle attività di tipo sindacale. Servizi come i CAF (Centri Assistenza Fiscale), le gare di selezione del personale, gli strumenti di lavoro e tutti i livelli di formazione devono – nel nostro caso specifico – essere accessibili. Sempre in questo comma 1 si demanda la possibilità di tutela giurisdizionale che vedremo nell’Articolo 4. Il comma 3 dell’Articolo 3 pone alcune possibilità di non applicazione, relativamente a particolari tipologie di lavoro che richiedano particolari abilità.

“3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’art. 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima. Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione delle caratteristiche suddette ove esse assumano rilevanza ai fini dell’idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare”.

Per esempio, se si trattasse di una prova di assunzione di piloti per l’aeronautica, attualmente non esistono delle tecnologie che possano consentire ad un utente non vedente di poter soddisfare i requisiti richiesti ai piloti senza tale disabilità. Gli altri commi dell’art. 3 riportano ulteriori casi di esclusione di applicazione della normativa che però non riguardano il settore della disabilità.

art. 4. (Tutela giurisdizionale dei diritti)

1. All’art. 15, comma 2, della legge 20 maggio 1970, n. 300, dopo la parola “sesso” sono aggiunte le seguenti: “, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.

Pertanto con tale modifica l’art. 15 della Legge 20 maggio 1970, n. 300 diventa il seguente:

art. 15. (atti discriminatori)

È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:

a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;

b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti ai fini di discriminazione politica o religiosa, di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.

Per coloro che non intendono avvalersi della possibilità di conciliazione definita nei contratti nazionali collettivi di lavoro, il comma 3 dell’art. 4 propone la soluzione tramite tentativo di conciliazione o – se si tratta di amministrazione pubbliche – le rappresentanze locali delle realtà indicate nell’art. 5:

“3. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una delle discriminazioni di cui all’art. 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 410 del codice di procedura civile o, nell’ipotesi di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’art. 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche tramite le rappresentanze locali di cui all’art. 5″.

Nei commi seguenti dell’art. 3 vengono riportate le condizioni per dimostrare il fatto nonché le possibilità offerte al giudice.

“4. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dell’art. 2729, primo comma, del codice civile”.

Questo significa che, secondo quanto stabilito dal primo comma dell’art. 2729 del Codice Civile che recita:

art. 2729 (Presunzioni semplici)

Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti”.

La valutazione delle prove è quindi lasciata alla “prudenza” del giudice e di fatto alla soggettiva valutazione caso per caso. Proseguendo nell’analisi dell’art. 4, al fine di non affidarsi totalmente alla soggettiva valutazione da parte del giudice, i successivi commi stabiliscono il potere assegnato al giudice in questi particolari casi.

“5. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.

6. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 5, che l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.

7. Il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza di cui ai commi 5 e 6, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale.

8. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di cui all’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165″.

Nel comma 8 chiaramente ci si riferisce alla possibilità di derogare agli organi giudiziari del Personale in regime di diritto pubblico:

“In deroga all’art. 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonché i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall’art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n.691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n.281, e successive modificazioni ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n.287″.

Passando all’art. 5, vediamo quali siano le realtà che possono agire a tutela dei lavoratori discriminati:

art. 5. (Legittimazione ad agire)

1. Le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell’art. 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui e’ riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio.

2. Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione”.

Tutte le associazioni rappresentative delle categorie già citate sino dall’art. 1 possono quindi in forza di delega tutelare i lavoratori soggetti a discriminazione, anche in caso di discriminazione collettiva quando non sia possibile individuare in modo diretto o immediato le persone lese dalla discriminazione. Questa, di fatto, è già una normativa che obbliga i datori di lavoro, sia pubblici sia privati, a garantire a tutti i lavoratori uguali diritti nell’accesso ai posti di lavoro, in ambito lavorativo, formativo e di servizi e attività sindacali. Significa quindi che già dal mese di agosto, data di pubblicazione del decreto, sia nel settore privato sia nel settore pubblico i datori di lavoro devono fornire strumenti atti ad integrare i lavoratori con disabilità. Quindi, nel caso del Web, consentire anche l’attività di sviluppo dei contenuti (secondo W3C ATAG) e non solamente gli aspetti della fruibilità (secondo le W3C WCAG).